QUANDO SI VUOLE UNA COSA, L'UNIVERSO INTERO TRAMA A FAVORE.

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    QUANDO SI VUOLE UNA COSA, L'UNIVERSO INTERO TRAMA A FAVORE.



    Seguendo la modalità di pensiero di Paulo Coelho, nel suo celeberrimo "Manuale del Guerriero della Luce", sembrerebbe evidente che, come nelle esperienze più importanti della propria vita (rapporti con familiari, amori e amici), anche nel settore lavorativo accadano, in modo del tutto naturale, eventi sincronistici: coincidenze significative ed acasuali a tale alto impatto emotivo e simbolico da illuminare completamente la trama della propria storia e del proprio destino, ed il senso di coesione tra il proprio Io interiore ed il mondo esterno.

    Il modo di pensare meccanicistico, tipicamente occidentale a cui siamo abituati, ci è stato impresso attraverso una concezione del mondo basata sulle leggi algiche della logica e fisiche della dinamica, in cui ad ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria: quando si agisce, si produce un effetto.
    A volte, nel pavido dubbio, si sceglie di non agire: posizione discutibile solo nell’etica, perché unisce insieme la mancanza di volontà con l’indolenza, se non, addirittura, l’ abdicazione di responsabilità, che porta inevitabilmente a delegare l’altro delle decisioni sui propri interessi e a subirne le conseguenze, solo come pretesto denigratorio.
    Tuttavia, tale sottomissione non è incompatibile con la realizzazione di un’ineluttabile predestinazione, e, non a caso di contro, homo faber fortunae suae, semper.

    Questo modo di pensare offre l’illusione di avere potere e controllo assoluto sul proprio destino, adulando il proprio Io con false percezioni della realtà immanente.
    Se invece si abbandona tale ideazione e si riconosce l’acasualità degli eventi, si viene immersi nello sconosciuto, e ciò si rivela essere non solo un’esperienza altamente ansiogena, e dunque spesso degna di abbandono, ma anche generatrice di pusillanimità.

    Altre culture (indigene americane, cinesi, tibetane, ecc.) ritengono che gli individui non agiscano su un mondo separato ed oggettivo, ma siano facenti parte di una ragnatela di relazioni soggettive: quando l’esperienza individuale e soggettiva dell’interazione con il mondo assume maggiore rilevanza del dominio individuale sull’ambiente, basato sulle leggi di causa-effetto, è solo allora che la stessa attitudine alla vita incorpora in sé, in modo fluido e naturale, situazioni in cui il caso diviene significativo.
    Accade, dunque, che qualcosa o qualcuno possa far deviare da una strada sterile su cui ci si trovava, e spinga, misteriosamente, e in modo sorprendente, verso un lavoro più appagante, realizzando così la centratura del proprio essere.

    In occidente, quando i lavori nascevano dalle profonde necessità di sopravvivenza della comunità che protendeva al benessere sociale e a finalità non materiali, questi venivano chiamati “professioni” o “vocazioni”, mettendo in risalto, anche in base al significato linguistico ed etimologico delle parole, la loro valenza significante.

    “Professare” significa proclamare una fede o aderire a certi ideali; in tal senso, l’appartenere ad una professione, assume il senso più ampio e completo, quasi spirituale, di dedicare la propria vita ad attività conformi ad un certo sistema di valori.

    Allo stesso modo, “vocazione”, indica una voce: un movimento interiore verso lo svolgimento di un’attività a cui ci si sente chiamati, che arriva spesso sotto forma di suggerimento da qualcosa o da qualcuno, che, a volte, è più rilevante dei propri interessi e delle proprie inclinazioni personali, ma che realizza perfettamente la propria “missione” sociale.

    Rispondere ad una vocazione, sia essa chiamata esterna che interna (del proprio Sé, che cerca l’ascolto del proprio Io) a fare qualcosa o a dirigersi verso una meta, indirizza spontaneamente le energie in un’attività, in un “lavoro”, che assume però, in tal caso, la connotazione di qualcosa di diverso, perché è destinata a produrre naturalmente l’espressione delle proprie reali potenzialità, coerentemente con il proprio processo di auto-realizzazione personale e spirituale, in coesione numinosa con la storia della propria vita e con le proprie relazioni significative.

    Avere una mansione, un tempo, significava avere un mestiere, che si era tenuti a svolgere per ragioni che andavano al di là dei bisogni materiali e di guadagno.
    Oggi, invece, parole quali “lavoro” (che da “durar faticando”, diviene qualcosa che si fa solo per guadagnarsi il denaro necessario alla sopravvivenza), e “carriera” (la via su cui si fa passare il “carro” della propria vita, ovvero la strada su cui si esercita la propria azione nella vita in una prospettiva a lungo termine), spesso non ci dicono assolutamente nulla sulla significatività di quello che stiamo facendo rispetto al chi siamo e come interagiamo nel mondo, e che porta, invece, ad un pericoloso identificare se stessi con ciò che si fa, piuttosto che con ciò che si è, creando una falsa struttura di personalità.

    Secondo Philip Drucker, antropologo e archeologo specializzato in Nativi Americani, le persone che non si sentono pienamente realizzate e che avvertono delle potenzialità inespresse, dovrebbero porsi tre domande: quali sono le mie capacità e i miei interessi? Come lavoro? Quali sono i miei valori? Ma prima ancora: quello che faccio mi fa sentire felice e realizzato? E dopo: Cosa vorrei davvero?
    Quando l’uomo smetterà di cercare Dio all’esterno e lo riscoprirà come entità all’interno di sé, quale entità trascendente e luminosa di pura e piena consapevolezza, capirà che è proprio in sé che si realizza la trinità: creatore, cre-azione, creato. Come? Sognando, desiderando, agendo.

    Ritornando a se stessi, la mente diviene consapevole della propria vocazione e l’accetta, l’individuo si rimette in armonia con la realtà esterna che risponde con la propria ricchezza e la propria abbondanza, elargendo i suoi doni.

    Siamo immersi in una rete di interessi, di sogni, di desideri in cui la non rispondenza a ciò che è altro rispetto al proprio Io determina esclusione dal significato immanente della vita, ma una mancanza di coerenza interna determina incosciente asservimento della volontà altrui, non sempre in linea con la propria vocazione, fino alla sciagurata dissipazione di tutti i propri doni e i propri talenti, anche quelli predestinati.

    Intestardirsi, dunque, su ciò che si vuole e ciò che non si vuole dalla vita e aspettare con l’atteggiamento di chi è pronto ad accogliere qualsiasi cosa la vita offra, sembra essere l’atteggiamento giusto, perché la vita non tarderà ad offrire esattamente ciò per cui siamo “(con)vocati”, basta saper riconoscere il significato acasuale degli eventi.


    Siamo noi a trovare un lavoro o è il lavoro a trovare noi?


    Aurora Fluoreale

    [L'Urlo, Ottobre 2012]
     
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