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La crisi politico-economica, come crisi sistemica, si riflette con effetto domino su molti aspetti della nostra vita, "stringendoci da vicino", diceva W. Wordsworth, e "che si guadagni o si spenda, disperdiamo i nostri talenti".
Le due più grandi – essenziali e sufficienti, diversamente da quanto rilevato dalla piramide dei bisogni di A. Maslow – necessità e, simultaneamente, le due più elevate ed edificanti esperienze umane, soddisfacenti i sottesi bisogni stessi, rimangono l'amore e il lavoro. L'amore come ultimo miraggio in cui l'individuo trova realizzazione di sè nella relazione con l'altro, e il lavoro come momento ideale di sollevamento individuale e spirituale, momento di primitiva e naturale volontà di fare, spontaneo e cosciente atto di manifestazione creativa, propedeuticamente pre-procreativo.
Oggi, ahinoi, il lavoro è sovente arido e spersonalizzato momento, finalizzato a se stesso dalle esigenti macchinazioni sistemiche aziendali, dai processi tecnico-industriali. L'uomo perde connotazione personalistica a vantaggio di disumane istanze di spersonalizzazione e riduzione a fattore lavoro, e ripersonalizzazione a scopo di inserimento professionale, dettate dalle leggi di profitto di sistemi inanimi e autoreferenziali, potenzialmente immortali.
L'amore non è sufficiente a soddisfare tutte le nostre esigenze, di fatto nelle storie delle nostre vite, il lavoro svolto, occupa sempre, e in rilevanza, una posizione centrale, tanto da limitare, quando non addirittura impossibilitare, la relazione amorosa.
C'era un tempo in cui attorno a lavori umili quali potevano essere coltivare, cucinare, cucire, costruire e riparare le abitazioni, ecc.. ruotavano le abitudini e i riti di aggregazione, e grazie ai quali nacque la società civile, la stessa che oggi ha assunto la forma spropositata della nostra organizzazione statale e globalizzata. Un tempo rimpianto, in cui vi era anche il profondo riconoscimento e rispetto della diversità biologica tra uomo e donna, e su tale rispetto venivano assunti i ruoli all’interno del nucleo e della società di appartenenza, tempo in cui uomini e donne erano idem-potenti.
Il lavoro nasce dunque dalle profonde necessità di sopravvivenza di una comunità che si poneva come scopo il benessere sociale più esteso e fini essenzialmente non materiali. Oggi invece sembra che anche il bisogno di identità, il “chi sono io” dell'individuo, venga fissato dal possedimento o meno dell'ultimo surrogato tecnologico tappa-buco e sfogo alla frustrazione che ovviamente un mondo siffatto inevitabilmente suscita. Non si lavora più per sopravvivenza e benessere, forse più per identità e status.
In questo scenario di individui-prodotto, in Italia non si produce più, di conseguenza non c’è forma di lavoro a “misura” d’uomo, ma solo lavori a forma di uomo-macchina che, per necessità indotta (cioè per una forma di dipendenza creata ad arte dai dettati delle multinazionali) e non per bisogno naturale, riforniscono di una colonna vertebrale standardizzata e customizzabile di identità (ormai insostenibile). Paradossalmente, nel tentativo di identificarsi, nella massa, l’uomo finisce con l’identificarsi con la massa stessa.
Aurora Fluoreale
[L'Urlo, Settembre 2012]
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